Pietro Fratangioli nacque a Trequanda nel podere Invidia verso l’anno 1410/15 ed all’età di 9 anni, infiammato dall’amore divino, andò ad Asciano presso il convento dei frati francescani per farsi Conventuale.
Il padre recatosi a riprendere il figlio inveì duramente contro i frati con offese e cattive parole. Pietro tornò all’Invidia, ma salendo le scale, improvvisamente diventò cieco.
Il padre comprese che la vita, la luce degli occhi, del cuore e della mente, per il fanciullo erano lontano da lì, nel convento, nella regola di San Francesco. L’uomo, spaventato, si inginocchiò e pregò con fervore Dio che ridonasse la vista al piccolo che infatti la riprese. Il padre lo riportò ai frati e gli mise di propria mano l’abito francescano.
Novizio modello e grande studioso divenne un predicatore eccellente ed incisivo.
Ad Asciano si meritò la stima dei frati che lo vollero guardiano e qui vi rimase sino al 1440, anno in cui incontrò San Bernardino, in viaggio verso Napoli.
Il Santo lo condusse al convento degli osservanti francescani presso l’Isola Maggiore del lago Trasimeno ove rimase, in eremitaggio, per diciassette anni.
Il Beato Pietro fu un vero osservante, secondo lo spirito di San Francesco e di San Bernardino: abbracciò con slancio e praticò per tutta la vita la povertà, la castità e l’obbedienza.
Lasciato il Trasimeno si recò probabilmente all’ Osservanza a Siena: i senesi lo amarono molto e avrebbero desiderato che non si allontanasse mai dalla loro città. Predicò più volte nelle piazze principali di Siena riportando la pace nella città divisa da lotte intestine.
Vocato ad un apostolato itinerante, tuttavia, non rifiutò mai, per la santa obbedienza, di assumere incarichi che lo tennero occupato per lunghi anni in diversi conventi: a San Cerbone presso Lucca, all’ eremo del Colombaio di Seggiano, presso Grosseto.
IL convento di San Francesco di Cetona fu uno dei luoghi più amati dal Beato e lì vi si ritirò sapendo che la morte bussava alla sua porta.
Volle la cella più povera: parco nel cibo e nel bere . Pativa molte infermità: renella, dolori di testa, fegato ed insonnia; per quarant’anni aveva dormito solo due ore per notte e raramente si stendeva nel letto a foggia di pagliericcio.
La sua giornata a Cetona era scandita dalla preghiera e dalla contemplazione; per quasi tutta la notte rimaneva in orazione piangendo copiosamente.
Invitato dal vicario a coricarsi in posizione più comoda e riposare il Beato rispose “Figliolo, quando tu mi vedrai mettermi a giacere, apri pure la sepoltura perché sarò vicino a morte”.
La morte lo colse a Cetona il 17 gennaio 1492 dopo la recita di mattutino. Il corpo inumato fu messo nel muro della Chiesa del convento di San Francesco.
Il 18 aprile 1752 i resti mortali del Beato Pietro furono traslati dalla mensa dell’altare maggiore (posti il 3 aprile 1623) in un’urna di legno dorata e parte di queste ossa distribuite a diverse chiese e specialmente a quella di Trequanda.
Nelle sue prediche non mancò di rivolgersi ai potenti per invitarli al buon governo, pena dolorose capitolazioni. Durante le epidemie di peste riusciva, meditando e pregando, a consolare gli infermi e a tranquillizzare i sani predicendo guarigioni che si verificavano puntualmente.
Fece previsioni che poi si rivelarono esatte: previde il ritorno dei Noveschi a Siena, cacciati nel 1483 e tornati effettivamente al potere nel 1487 , ebbe una visione in cui vide il re Carlo VII che occupava la penisola italiana, predisse alla sua nipote la malattia e il giorno della morte di una sua figlia, disse alle religiose del convento di Pistoia, dove era confessore, che solo sette di loro sarebbero morte a causa della pestilenza, e così avvenne.
Questi sono solo alcuni esempi che le cronache ci tramandano delle profezie del Beato Pietro da Trequanda.
Predisse anche la sua morte e disse ai frati come avrebbero potuto accorgersi del suo trapasso.
La sua fama fu grande tra i contemporanei sia per le sue straordinarie doti di predicatore sia per il dono della profezia sia per i favori che Dio gli accordava concedendo attraverso lui grandi miracoli. Così nel periodo delle grandi pestilenze che colpirono la Toscana si recò a Montenero ove la popolazione aveva abbandonato le case e si era rifugiata in piena campagna. Radunò la gente ed uscito dalla preghiera e dalla meditazione rassicurò che Dio avrebbe fatto loro la grazia della salute. E così avvenne; a Montenero, come a Siena, a Cetona, a Seggiano.
Sinalunga fu teatro di guarigioni: guarì un bambino con l’imposizione delle mani; nella cappella del convento dei frati impose le mani sulla testa di un bimbo cieco che riacquistò la vista.
A Cetona guarì un uomo gravemente infermo dalle gambe ed un bambino di tre anni, muto, dalla febbre quartana. La sorella del bambino fu liberata da quello che si diceva “guasta dalle streghe”.
Fu anche esorcista potente per volontà divina e liberò molti ossessi anche solo con la preghiera a distanza.
Schivo per natura asseriva che non è l’uomo che fa i miracoli, è Dio che li concede; fu così certo di questa condizione di servo che si rifiutava persino di toccare i malati, perché per umiltà diceva che non aveva il potere di sanare e perché non si dicesse che “lui faceva i miracoli”, per non essere trasformato dalla gente in idolo.